Sumaq Urqu: La normale vita anormale dei minatori boliviani

Iacopo Lattanzio Cultura, Post Leave a Comment

Ascoltando attento il naufragare di illimitati passi
Riesco dunque a vederli.
L’ingiustizia di una calma impaziente
Dona loro una normale vita anormale,
che li spinge lungo una strada colma di contraddizioni.
Come la miriade di oscure nubi orientali che penetra nei loro corpi.
Tutto a un tratto non odo nulla.
Li guardo immobili, diversi, attenti,
insieme sono spinti da spiriti di antenati immaginati,
verso il punto più alto del loro mondo,
in un sistema circolatorio capace di ricongiungere ognuno ai propri avi.
Regalando un equilibrio a noi sconosciuto.


Sumaq Urqu: è così che originariamente la chiamavano i Quechua, ma è con il nome di Cerro Rico, datogli dagli Spagnoli, che oggi conosciamo la maestosa montagna alle spalle della città di Potosì, in Bolivia. Nel 1580 Potosì, con i suoi 120.000 abitanti – tra nativi, creoli e europei – era la città più grande d’America. Questo perché venne fondata e sviluppata dai coloni attorno al Cerro Rico che partoriva l’argento esportato prima in Europa e successivamente in Oriente. Nei cunicoli della montagna di “plata”, come viene soprannominata ancora oggi, tra il 1545 e il 1625 si stima che circa 15.000 indigeni abbiano perso la vita durante le esportazioni d’argento.

Questo è un piccolo accenno alla storia di Potosì, una storia fatta di sofferenza che per alcuni versi non si è attenuata ancora oggi. L’argento, scomparso completamente da molto tempo, come le vite dei minatori di quell’ epoca , ha lasciato il posto a zinco e stagno : sono questi ad essere diventati i principali minerali insanguinati del Cerro Rico.

Le condizioni di lavoro all’interno della miniera non sono cambiate così tanto dall’epoca coloniale: i mineros lavorano anche 20 ore al giorno, respirando continuamente mercurio e utilizzando dinamite. Oltre alle anacronistiche e disumane condizioni di lavoro ciò che hanno mantenuto sono gli antichi riti e tradizioni: lo spaventoso diavolo di cartapesta ed innanzi il feto di lama utilizzato per il rituale, viene ancora oggi cosparso di foglie di coca e alcool puro come segno di buon auspicio per una giornata di lavoro prolifica.

La miniera è praticamente l’unica forma di sostentamento della città. Tra i più giovani che lavorano all’interno vi sono ragazzi di 14 anni, i quali hanno perduto ormai da tempo la sincerità e la purezza che contraddistingue quell’età. Al di fuori della miniera invece, a rompere quotidianamente e continuamente le pietre che arrivano dal ventre della montagna ci sono bambini di 6 anni che aiutano le madri, le “palliri” ,nella loro attività giornaliera.

Ciò che si nota continuamente camminando per le strade della città è l’abitudine a questo stile di vita e di conseguenza il vivere con normalità queste condizioni senza sapere minimamente cosa c’è nel resto del mondo. Paradossalmente, è a noi che cresciamo e viviamo con delle alternative, con la possibilità di poter scegliere, che a vedere, appunto, le condizioni di vita dei “Potosini “ ne rimaniamo non solo increduli, ma pietrificati.

Foto e testo: Jacopo Lattanzio